In Romagna quelli di Castel Bolognese erano noti come gli abitanti del "paese delle oche". Era infatti possibile incontrare dappertutto branchi di oche che si aggiravano dinoccolate e buffe per le strade del paese, nei grandi prati dei Cappuccini e della Filippina, lungo le fosse a ridosso delle vecchie mura, ove il Municipio permetteva che si facessero tanti stalletti di legno per accoglierle.
In realtà l’allevamento delle oche era per gli abitanti di Castello una delle industrie più redditizie, soprattutto per tante donne povere, che si ingegnavano nell’allevare sia le oche dette sementine sia quelle da ingrasso. Le prime venivano nutrite per la riproduzione, le seconde venivano macellate con l’arrivo dell’autunno e la loro carne veniva venduta nei vicini mercati di Faenza, di Imola e di Lugo, dove le donne di Castel Bolognese tenevano un vero e proprio monopolio. Ricercatissimo e costoso era il piumino che si ricavava dalla spennatura, mentre l’abbondanza delle uova chiare consentiva a tanta povera gente di alimentarsi con molto risparmio.
Le oche erano entrate a far parte del folclore castellano ed offrivano spesso lo spunto ai forestieri per additare scherzosamente i castellani.
Un anonimo verseggiatore faentino di Borgo Durbecco, animato da spirito sanfedista, racconta in versi berneschi, sotto il titolo di "Bambocciata", la rivoluzione liberale faentina del 3 febbraio 1831, prontamente soffocata dall’Austria. L’arrivo degli insorti era così descritto: "...
ecco dunque per primi i Bolognesi
e quindi gli Imolesi
seguiti bel bello
dai padroni dell’oche di Castello,
molti dei quali, e pare i più bravoni
avean per armi assai lunghi bastoni".
E il poeta Giosuè Carducci, pure colpito dallo spettacolo delle oche castellane, scrisse in una pagina di "Levia Gravia": "...la voce era come d’un coniglio che zighi e le penne come d’un ‘oca cui un industre paesano di Castelbolognese abbia alleggerito del bianco mantello".
In uno dei giorni di carnevale del 1872 venti maschere che imitavano le oche, nel numero corrispondente a quello dei consiglieri comunali, sfilarono per le strade del paese. Quando raggiunse la residenza municipale, la spassosa mascherata intonò un canto satirico:
«Vo’ cantarvi la canzone
delle oche e dell’ocone,
che hanno offeso il podestà
per gridare quà, quà, quà...
Non è ver che sia immune
il palazzo del Comune,
perché l’oca v’entra già
e vi strilla quà, quà, quà...".
Furono forse le conseguenze di quella mascherata, commenta ironicamente il nostro Bacocco (Giovanni Bagnaresi), più di quelle del progresso, che aprirono fin da allora la crisi della fiorente industria delle oche di Castello. Un’industria ora del tutto scomparsa alla pari di altre attività, quali la filatura della canapa e l’allevamento dei bachi da seta, che consentivano soprattutto alle donne di sopperire ai modestissimi guadagni dei mariti. Allora persino la raccolta dei fiori dei tigli, di cui tutto il paese era adorno, costituiva una risorsa non indifferente per tanta povera gente. Poche erano le famiglie benestanti e le condizioni dei contadini non erano molto diverse da quelle dei braccianti, facchini, selcini, canapini, artigiani e piccoli commercianti, che rappresentavano la maggior parte della popolazione urbana. Il paese non era stato ancora invaso dall’industria moderna e non aveva ancora subito i profondi cambiamenti che l'hanno trasformato nell'attuale Castello. Tratto da: "Castelbolognese nelle immagini del passato. -Imola: Galeati, 1983."